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giovedì 24 febbraio 2011

La festa di Bengasi, città liberata «Ora vogliamo la democrazia»

Fori di proiettili su tutti i palazzi del governo. E al posto del regime c'è un Comitato di 15 saggi

BENGASI - Il Risorgimento della Libia è cominciato dalla sua seconda città per ordine d'importanza. Le cinque giornate di Bengasi anticipano e preparano il propagarsi della sommossa a Tripoli. Dal quindici al venti febbraio sono stati giorni ritmati dal crescendo delle violenze. Il punto di non ritorno fu il diciassette, quando diventò evidente che la rivoluzione stava trionfando. Ora sono in tanti a contare il numero dei morti e dei feriti in successione storica. Nessun dato ufficiale ancora. «Tra i 200 e 300 morti, quasi 1.000 feriti», sono le cifre più diffuse. E c'è chi cerca di fornire il numero delle vittime giorno per giorno, localizzando anche le zone della città più insanguinate. «Due morti il quindici febbraio sul lungomare; 37 il sedici di fronte al palazzo del ministero degli Interni; 32 il diciassette verso il tribunale; 75 il diciotto tra l'ospedale e il cimitero dove transitavano i cortei funebri; 23 il diciannove presso l'hotel e la caserma dove stavano i mercenari africani di Gheddafi; 57 il venti nelle periferie», computa con fare attento Atef Al Hassan, un ingegnere trentenne che sta cercando di organizzare un centro stampa nella speranza di accogliere al meglio i giornalisti. È un fatto ormai tipico nelle rivoluzioni che scuotono il Medio Oriente, avviene a Tunisi, al Cairo, in Yemen: i giovani vogliono la stampa, cercano di apparire, di esserci, non vedono più i reporter stranieri nella veste di «spie al servizio di America e Israele», come avveniva spesso da queste parti sino a pochi anni fa, ma alleati e amici, ambasciatori di quella modernità della comunicazione che ora anche loro vorrebbero disperatamente condividere. 

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