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mercoledì 23 gennaio 2019

Il franco Cfa è un cappio al collo, ma non è la causa di tutti i mali d’Africa. Facciamo il punto

Ne sto sentendo di tutti i colori. Forse è il caso di provare a fare un po’ di ordine. L’Italia ha improvvisamente scoperto l’esistenza del franco cfa (sefà, per favore, non cieffea!) quando da anni gli attivisti africani si sgolano invano nel denunciare l’esistenza di questo cappio al collo. Il problema – dal mio punto di vista – è che questa “scoperta” ci rende miopi davanti a una situazione ben più complessa:
1. Al franco cfa sono vincolati 14 Paesi africani. L’Africa di Paesi ne conta 54. Negli altri 40 va tutto bene? Direi proprio di no.
2. In base ai dati ufficiali degli sbarchi forniti dal Viminale, aggiornati al 31 dicembre 2018, si indicano i Paesi di provenienza dichiarati dai migranti. Abbiamo al primo posto la Tunisia, con oltre 5mila persone, seguita da Eritrea (oltre 3mila), Iraq (1700), Sudan (1600), Pakistan (1500), Nigeria (1200), Algeria (1200), Costa d’Avorio (1000), Mali (800), Guinea (800).

Ho arrotondato, le cifre mi servono giusto per far capire in maniera chiara che fra i primi dieci Paesi di provenienza ci sono solo due Stati che usano il franco cfa, che sono la Costa d’Avorio e il Mali: 1800 persone e poco più. Quindi, in sintesi: il franco cfa è un problema? Sì. E anche grosso. E sbaglia chi (come alcuni esponenti del Pd in queste ore) nega le sue pesanti ricadute sulle fragili economie africane. Ma il franco cfa è la causa di tutti i mali d’Africa? No. È la causa dei flussi migratori? No, se non in piccola parte.
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