Pasta, sugo e mozzarella a tavola 60 miliardi dal finto made in Italy
Gli imprenditori comprano all'estero i semilavorati. Dopo aver "lavato" l'etichetta, li vendono come locali. E risparmiano il 40%. Il consumatore deve conoscere l'origine dei prodotti. Ma il Parlamento non ha ancora approvato il ddl
di PAOLO BERIZZI
FOSSERO "solo" i pomodori, le mozzarelle, il prosciutto, il latte. No, c'è anche la pasta. Manco quella è più "made in Italy". Ci stanno fregando tutto, anche il piatto nazionale per eccellenza. O forse ci stanno fregando e basta. Quasi la metà dei nostri prodotti da tavola, anche se "batte" ufficialmente bandiera tricolore - sul marchio, sull'etichetta, nell'ammiccante descrizione intrisa di orgoglio nazionale - proviene dall'estero; o è lavorata con materia prima che arriva da oltre confine. Dai paesi del Nord e dall'America latina. Dal cuore del vecchio continente e dall'Est europeo. Partono da lontano le derrate dell'import farlocco: in molti casi, sembra incredibile, dai territori dei nostri competitor diretti. Quelli a cui poi rivendiamo il made in Italy. È merce che si mischia a quella "ufficiale", quella effettivamente proposta come non autoctona. Alla fine del suo viaggio, dopo lunghe tratte per mare o per terra, può finire nel grande imbuto dei 129 prodotti Dop (denominazione origine protetta) e dei 77 Igp (indicazione geografica protetta) che vanta oggi l'Italia. È un giro d'affari che, tra inganni e sotterfugi, vale ogni anno 60 miliardi. Che alleggerisce del 40% le spese di produzione delle nostre imprese alimentari. E che, a seconda dei casi, in una specie di girandola impazzita, o ne fa lievitare gli utili - aprendo il paracadute in tempo di crisi e di diminuzione dei consumi - oppure, al contrario, taglia le gambe. Ma come si diffonde il fenomeno del nostrano-importato? E che effetti ha sull'agroeconomia? E sulla nostra spesa?
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