Il racconto del maestro di sci che raggiunse l’albergo sepolto dalla valanga: «La struttura non si vedeva più, l’unico indizio era una luce. E un cuoco che piangeva»
Un anno fa la tragedia di Rigopiano: una valanga travolse l’hotel abruzzese causando 29 morti. Undici le persone sopravvissute
Diretto verso un incubo
Fabio
Pellegrini, uno dei soccorritori, dice che ogni notte fra le due e le
tre si sveglia a passa in rassegna i ricordi di quelle ore. «Rivedo la
neve, sempre più alta, ho in mente i piedi che affondano assieme agli
sci, l’impronta che lasciano. Mi sembra di sentire le voci preoccupate
dei ragazzi dietro di me, le loro domande: quanti chilometri mancano?
Secondo te può venir giù una slavina? Qui ci sono precipizi? Ma dov’è
quest’hotel? Più andavamo avanti più pensavo: mi sono preso una bella
responsabilità. Stavo guidando in direzione di un incubo, undici ragazzi
che non conoscevano pendii, esposizioni, pericoli di quella valle...».
Era la notte fra il 18 e il 19 gennaio dell’anno scorso, buia come
nessun’altra nella vita di chiunque sia arrivato lassù, fino al
Rigopiano. Lui, Fabio, è stato il primo e non si è mai fatto avanti per
dirlo, nemmeno quando altri si sono aggiudicati il primato senza averlo
vinto, diciamo così. «Non fa nulla» commenta lui, «ognuno sa quel che ha
fatto, le polemiche non servirebbero a nessuno». Fabio ha 43 anni, due
figli piccoli, moglie e vita a Loreto Aprutino, 35 chilometri
dall’hotel. È un istruttore di scialpinismo del Cai, le montagne attorno
al Rigopiano sono sempre state quelle dei suoi allenamenti sulla neve o
in sella alla bicicletta. «Le conosco benissimo — racconta — e siccome
per chi si allena le distanze hanno importanza, io quella sera a ogni
passo sapevo esattamente quanti ne mancavano ancora per arrivare su».
Alla radio dicevano che dal Rigopiano non davano più segni di vita.
«Come sempre staranno esagerando ma andrei a dare un’occhiata», ha detto
a un collega del Cai.
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