E allora chiamiamolo Flop Act: dopo i dati pubblicati oggi dall’Istat
molto dell’ottimismo nato nei mesi scorsi si è sgonfiato. La
disoccupazione è risalita al 12,7%, e in particolare ad essere
penalizzate sono state le donne (42 mila posti in meno) e i giovani (il
42,6% è a casa).
Il ministro del lavoro Poletti si difende dicendo che non c’è nulla
di preoccupante, perché in coda alla crisi i dati non sono stabilizzati.
In realtà è stato preso in contropiede, perché sabato a Venezia aveva
annunciato milioni di nuovi posti di lavoro in arrivo. Ora cerca di
nascondere una realtà completamente diversa e cioè che il Jobs Act non
funziona per la semplice ragione che il lavoro non si crea cambiando le
regole ma con la crescita economica. Un Paese che, forse, salirà dello
0,7% dopo sette anni in cui ha perso il 10%, non crea posti di lavoro.
Casomai continua a perderne. E allora come spiegare i 79 mila contratti a
tempo indeterminato in più a febbraio di cui il governo va tanto fiero?
Molto semplice: è stato solo il frutto della trasformazione di altri
tipi di rapporti di lavoro (co.co.pro, tempo determinato e altro ancora)
sfruttando la totale decontribuzione prevista per tre anni dalla Legge
di Stabilità. Le aziende hanno fatto un semplice calcolo di convenienza: se
confermavano i lavoratori con i vecchi contratti dovevano pagare,
mediamente, il 30% di contributi previdenziali. Assumendoli con il
contratto a tempo indeterminato invece avrebbero potuto godere dello
sgravio di ottomila euro l’anno per ogni dipendente. Complessivamente un
vantaggio di ventiquattromila euro in tre anni. E se alla scadenza la
congiuntura di mercato non sarà più propizia nessun problema: pagando
una piccola penale ci sarà il via libera al licenziamento per motivi
economici.
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