di FRANCESCO PERFETTI
Roma, 9 febbraio 2019 - Il 10 febbraio 2007 il presidente Giorgio Napolitano – celebrando il “Giorno del ricordo” in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, istituito per legge durante il settennato del suo predecessore Carlo Azeglio Ciampi – ebbe parole ferme e nobili. Parlò delle foibe come di un "imperdonabile orrore contro l’umanità", denunciò la "congiura del silenzio", "la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio" steso su quelle tristi vicende e, soprattutto, richiamò l’attenzione sulla necessità che ci fosse una pubblica assunzione della "responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali".
In quelle parole erano indicati i fattori che avevano contribuito a far sì che l’orrendo capitolo delle foibe diventasse, di fatto, un buco nero nella storia dell’Italia contemporanea.
C’erano, dietro il silenzio e le manipolazioni storiografiche, le conseguenze del sanguinoso scontro ideologico tra fascisti e partigiani, ma anche quelle di un non meno sanguinoso scontro all’interno del movimento partigiano fra l’anima comunista e quelle non comuniste, e, infine, c’erano le esigenze di una sciagurata Realpolitik nei confronti, in epoca di guerra fredda, della Jugoslavia di Tito.
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