Genova - «Io, che lavoro qui, ho il terrore di diventare un paziente di questo ospedale». L’infermiera raggiunge l’ultima barella, seguendo i barellieri e i parenti in fila indiana. Non si può camminare in altro modo nelle corsie del primo piano del pronto soccorso del San Martino.
In fondo al corridoio è coricata una donna che sta per essere dimessa. Davanti ai suoi piedi c’è una porta. Divide l’area critica dall’area medica. Si apre continuamente. Dietro la testa, un’altra barella. Accanto, a poco più di un metro, ancora un’altra barella. Questa volta la donna è nuda. L’infermiera, con tutta la delicatezza che si può avere in una situazione del genere, vuole lavarla per l’ultima volta. Con un braccio le alza le gambe. Con l’altro le rimuove il pannolone, mentre a parole cerca di spiegare a chiunque incroci il suo sguardo che quel lavoro lo deve fare per forza: «Devo farlo, capite? È questione di pochi minuti». Nessuno scuote la testa quando il bacino della paziente viene sollevato, piegandosi in modo innaturale. È routine. È il dramma che si consuma ogni giorno in questo come in altri dipartimenti di emergenza in tutta Italia. Non si sa neanche se la pensionata si stia lamentando. In questo grado zero della dignità i lamenti dei pazienti che affollano il pronto soccorso sono suoni indistinti. Si perdono in un sottofondo da incubo: qualcuno chiede aiuto, altri parlano con i parenti, i macchinari non si fermano mai.
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