Stefano Binda frequentava Cl come la vittima. Sarebbe l'autore del testo
"In morte di un'amica" consegnato in forma anonima alla famiglia.
L'accusa: violentò la studentessa poi la uccise perché "si era concessa
ma non avrebbe dovuto farlo per via del suo credo religioso"
MILANO - E' morta come
Yara: al freddo di una notte di gennaio, in un luogo isolato, ferita e
senza nessuno che la potesse aiutare. A trent'anni dal fatto, l'omicidio
di Lidia Macchi, la studentessa di 20 anni trovata morta in un bosco
del Varesotto, potrebbe non rientrare più nell'elenco dei 'cold case'.
Fu il primo caso in Italia in cui si ricorse al test del Dna, anche se
poi le analisi non portarono a nulla. Stefano Binda, 48 anni, ex
compagno di liceo e, come lei, frequentatore dell'ambiente di Comunione e
Liberazione è l'uomo che l'avrebbe uccisa. Di più, gli investigatori
dicono che l'ha uccisa con 29 coltellate dopo averla violentata, perché
sarebbe stato convinto che lei si era concessa e che non avrebbe dovuto
farlo per il suo "credo religioso".
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